Rackspace scommette sul cloud australiano e sbarca sull’isola con la sua offerta

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La domanda sorge spontanea: Rackspace sta seguendo le orme di Amazon? Il dubbio malizioso non può non insinuarsi nell’apprendere che il noto marchio del cloud computing sia sbarcato con tutte le nuvole in Australia. Bisogna notare che Rackspace non è certo nuova nel Mainland, visto che il marchio offriva soluzioni di hosting tradizionale nell’emisfero australe ormai da tempo.

 

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La novità è da intravedere quindi nell’offerta cloud destinata al mercato australiano e nell’opportunità dedicata ai clienti locali di potersi avvantaggiare di un’infrastruttura elastica basata su OpenStack per garantire alle aziende del luogo un environment adeguato al business e facilmente scalabile. Rackspace propone un’infrastruttura ibrida, garantendo così le condizioni di accesso a una piattaforma pubblica, privata o mista a seconda delle esigenze. Per ora non è dato sapere quanti server Rackspace ha attivato in Australia e anche questo sembra un punto in comune con la strategia misteriosa di Amazon, ma l’azienda si è limitata nell’affermare che l’infrastruttura attuale è adeguata per ospitare centinaia di clienti e che sono stati spesi decine di milioni di dollari australiani per arrivare ben preparati allo switch-on. La speranza di Rackspace è che i clienti australiani possano trarre vantaggio dalla nuova infrastruttura locale. Il desiderio è anche quello di proporre Sydney a tutti gli altri clienti internazionali come base da cui partire per offrire servizi a bassa latenza agli utenti autoctoni. Per quanto riguarda le condizioni economiche, i prezzi pubblicati da Rackspace sonoleggermente più elevati delle medesime offerte riservate al mercato statunitense. Questo incremento è da imputare, probabilmente, al dieci per cento aggiunto al listino a causa della tassa imposta dal governo australiano sui beni e servizi.

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Una cloud, tanti tool: come orientarsi?

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Secondo gli analisti e gli esperti di mercato, non c’è limite al numero e alle tipologie di strumenti che supportano le aziende nell’adozione della tecnologia cloud. Oggi esistono infatti strumenti che possono aiutare i dipartimenti IT con il Configuration Management di macchine virtuali, altri che servono a migrare applicazioni in house sulla cloud, altri ancora che permettono una completa gestione dei servizi cloud e il monitoraggio di cloud multiple. 

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Ci sono inoltre tool che implementano policy di gestione, che impostano parametri di governance e gestiscono la crittografia del flusso di dati. Questi strumenti vengono rilasciati e commercializzati in ugual misura da provider di piattaforme cloud, system integrator, startup terze parti e vendor di fama consolidata, ma ciò che limita la loro diffusione è il fatto che le aziende non riescono a beneficiare completamente dei vantaggi della cloud. “Per molti di questi strumenti, il problema vero non è quanto la tecnologia sia effettivamente matura per essere utilizzata nelle grandi aziende; si tratta piuttosto capire se le aziende che lavorano sulla cloud sono pronte a utilizzarli”, dice Laurent Lachal, analista senior presso la società di consulenza Ovum. Mike Pearl, responsabile delle iniziative di cloud computing di PriceWaterhouseCooper (PwC), spiega che molte delle sue aziende clienti hanno passato gli ultimi due anni focalizzandosi sulla virtualizzazione dei loro data center e tenendo d’occhio la cloud pubblica per vedere come poteva adattarsi alle loro esigenze. Attualmente, la maggior parte di questi clienti di PwC sta lavorando per implementare l’automazione e mettere in atto i servizi necessari per acquisire i benefit dell’economia di scala che promette il cloud computing. “Il prossimo passo”, commenta Pearl, “sarà identificare i tool per il rilascio di servizi cloud automatizzati che siano qualcosa di più di una ‘point and click proposition’.

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Cloud computing: consumatori italiani non ancora pronti per utilizzare software in cloud

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Secondo la ricerca di Corel, la libertà di scelta è la variabile critica per gli utenti

 

I consumatori italianinon sono ancora pronti per comprare i loro software in cloud.

 

e preferiscono ancora acquistarlo in formato “fisico”, evitando così pagamenti ricorrenti sul web. Sono alcune delle principali evidenze emerse dalla ricerca sulle abitudini di acquisto di software, commissionata a livello europeo da Corel alla società Leadership Factor.

 

 

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Gli italiani preferiscono il prodotto fisico

Sul totale di 1000 persone intervistate in Italia, la ricerca di Corel ha registrato che il54,8% preferisce comprare il prodotto in forma fisica. Di questi, il 12,4% lo compra online mentre il 42,4% lo acquista in un negozio tradizionale. La percentuale di consumatori che decide, invece, di acquistare il software direttamente da Internet tramite il download diretto sul proprio computer è pari solo al 36,2% del totale intervistato, mentre solo il 2,3% è solito noleggiare o sottoscrivere un abbonamento pagando quindi un fee di utilizzo del software mensile o annuale. Per chi sceglie di comprare il prodotto fisico, ed è quindi ancora prevenuto nei confronti della sottoscrizione di un abbonamento in cloud, il 71,1% vuole essere in grado di eseguire liberamente l’upgrade del proprio software. A questo segue il 76,7% che non vuole perdere la possibilità di accedere al prodotto laddove scegliesse di porre fine all’abbonamento, il 56,7% non si sente a proprio agio a dare i propri estremi bancari/di carta di credito per questa ragione, il 59,9% non vuole dipendere da internet per l’utilizzo del proprio software, mentre. A questo si aggiunge un 68% che ha l’impressione di pagare di più sottoscrivendo un abbonamento, e un ultimo 33,1% che teme di non avere abbastanza larghezza di banda per scaricare l’applicazione software sul proprio dispositivo.

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That’s business intelligence

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Summit Italia 2013. Information Builders svela alle aziende come massimizzare il capitale informativo.

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«In Information Buildersabbiamo riscontrato un trend secondo il quale molti clienti considerano i propri dati aziendali un investimento paragonabile a quello di un capitale finanziario o umano». Parola di Gerald Cohen, presidente e CEO di Information Builders, nel video messaggio di apertura del summit internazionale, che ha fatto tappa a Milano (provenendo da Madrid e in viaggio verso Rotterdam) ed è stato l’occasione per la business community italiana di confrontarsi sulle soluzioni di business intelligence, integrazione e integrity con i più alti parametri di eccellenza e innovazione. L’evento ha offerto spunti di riflessione e ha presentato i migliori casi cliente (tra cui Compar Bata, sulla mobile BI) insieme alla visione del mercato. Le organizzazioni strategiche hanno ormai compreso perfettamente il valore intrinseco legato al fatto di rendere disponibili le informazioni a un numero crescente di persone, sia all’interno dell’impresa, sia all’esterno.

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Vincent Cerf lancia l’allarme: i dati memorizzati oggi? Rischiamo di perderli, ma c’è una soluzione.

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Archiviare enormi quantità di informazioni digitali, con l’idea di conservarli in eterno, può essere una fatica inutile. E questo perchè i software che andremo ad utlizzare in futuro potrebbero non essere più in grado di leggere i dati immagazzinati oggi nei pc, in supporti di memoria esterni o nei grandi server alla base dei servizi cloud.

 

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Il rischio che una parte dei Big Data (fogli di calcolo, documenti personali e di business ma anche contenuti di natura scientifica) di cui si fa un gran parlare possa andare perso un domani è stato ventilato con precise sottolineature da Vinton Cerf, uno dei padri di Internet e co-inventore del protocollo Tcp/Ip. Che ha messo nel mirino soprattutto un aspetto: l’obsolescenza dei programmi con i quali questi dati sono stati creati.

 

Il problema? L’obsolescenza dei software

Cerf ha affrontato il problema un paio di settimane fa, in occasione dell’evento Computerworld Honors, facendo riferimento esplicito a uno dei programmi più popolari e utilizzati oggi sul pianeta, e cioè Office 2011. Installata sul proprio computer Mac, la suite di produttività di Microsoft – questo l’affondo del 70enne guru oggi vice presidente e Chief Internet evangelist di Google – non è più in grado di leggere un file di PowerPoint creato nel 1997. Senza mettere sotto accusa il gigante del software, Cerf ha però rimarcato come la compatibilità (dei software) sia una qualità molto difficile da mantenere per periodi molto lunghi di tempo; effettuare periodici backup, trasferendo i file su dischi fissi dotati delle più avanzate tecnologie di sicurezza non risolve il problema. La valenza di un documento digitale – pensiamo per esempio ai file contenenti simulazioni di carattere scientifico – è tale solo se un software o un’applicazione è in grado di interpretarlo e all’occorrenza modificarlo. In futuro, questo l’allarme lanciato dal’ex studente della Stanford University che mise in soffitta la tecnologia del progetto Arpanet, potremmo perdere la capacità di utilizzare quei dischi.

 

La soluzione? I metadati

Come ovviare al rischio di perdita di milioni di informazioni? La ricetta di Cerf è nella sua essenza molto semplice: preservare i metadati, e cioè quelle informazioni che descrivono un insieme di dati e che quindi consentono di risalire alle condizioni in cui i dati stessi sono stati prodotti, organizzati e archiviati. Garantire lo status di bene durevole e senza scadenza all’immenso patrimonio di materiale digitale generato da ogni singolo individuo, aziende ed organizzazioni di vario genere è la vera sfida da vincere. Magari, come ha suggerito Cerf, sfruttando i metadati come una sorta di "digital vellum", di pergamena digitale capace di preservare i contenuti per migliaia di anni. Ben venga quindi il fatto che, a suo dire, si tratti di un problema noto e a cui si sta lavorando per venirne a capo.

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Big Data: c’è chi chiede cos’è. Ma per il marketing è giunta l’ora di fare altre domande

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Googlando “Big Data cos’è” si scopre che in 0.23 secondi il motore risponde offrendo 167mila risultati possibili. In fondo già questa è una risposta… 

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 I Big Data non sono altro che l’enorme flusso di informazioni che oggi transitano in Rete e che vengono da una molteplicità di fonti: i sistemi informativi aziendali, la digitalizzazione di molta burocrazia pubblica e privata, l’Rfid, i sensori e più in generale le smart city, il Customer relationship management (legato alle carte fedeltà, agli acquisti on line e off line, ai social network) e via dicendo. Il fatto è che tutti questi dati sono tanti. Così tanti che chiamarli Big Data è molto più facile e immediatamente comprensibile. Perché il marketing si interessi ai Big Data è tautologico…

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