Il tema dei libri digitali, presente nel decreto-legge approvato il 9 settembre in Consiglio dei Ministri, è una parte della questione complessiva del cambiamento necessario nella scuola digitale per attuare le politiche di innovazione, centrale per lo sviluppo della cultura digitale nel nostro Paese. Una rilettura del rapporto OCSE sulla scuola digitale, oggi disponibile in formato integrale, può essere illuminante per impostare un progetto organico di cambiamento.
La strategia, oltre i libri digitali
C’è sicuramente molta attesa per le politiche che il ministro Carrozza sta delineando in tema di istruzione, alcune delle quali vedono le prime applicazioni nel provvedimento approvato dal CdM di ieri 9 settembre. Diversi i punti rilevanti presenti nel provvedimento in tema di digitale: nel campo delle politiche sulla “scuola digitale” alcune importanti misure, dallo stanziamento sul wireless alla formazione sulle competenze digitali degli insegnanti, al sostegno per l’acquisto di libri e e-book, alla valorizzazione del merito sulla ricerca, alla rimozione dell’obbligo di adottare libri di testo (misura che avevamo provato a far approvare, senza riuscirci, come emendamento al decreto crescita 2.0 del 2012).
Ma, soprattutto, un indirizzo chiaro: valorizzazione del merito e, allo stesso tempo, necessità che I requisiti minimi siano soddisfatti da tutti gli elementi del sistema. Un ottimo inizio, un passo decisamente nuovo.
Nell’ambito degli interventi sulla scuola digitale, si sono in questi ultimi mesi avuti discussioni in rete anche molto vivaci rispetto alle anticipazioni del Miur sul rinvio delle precedenti scadenze sull’entrata in vigore dell’obbligatorietà dei libri digitali.
Sui libri digitali torneremo nelle prossime settimane, con un discorso più specifico e cercando di uscire fuori dal tema della forma e discutendo della sostanza e del metodo (non sono concepibili libri digitali che non stimolino e consentano l’interazione, la navigazione, l’esplorazione di percorsi anche attraverso più canali e media) oltre che del sistema di produzione (ruolo dell’editoria rispetto alla possibilità di costruire percorsi basati sulle buone pratiche e le produzioni delle stesse scuole) e delle infrastrutture necessarie per la completa fruizione (LIM e computer, banda e connessione Internet).
Credo, però, che questo non sia un tema centrale per la strategia della scuola digitale. Importante, certamente, ma conseguente. E per questa ragione mi sembra più utile rifare il punto sulla situazione generale delle politiche del digitale nella scuola e cercare di identificare i punti chiave di un percorso efficace di cambiamento.
La parola chiave: cambiamento
Una delle parole chiave è proprio questa: cambiamento. Con un obiettivo che va oltre l’allineamento della nostra capacità di avere studenti e laureati in grado di proporre innovazione e quindi contribuire a costruire un sistema competitivo e che consenta di migliorare la qualità della vita. La scuola, infatti, anche nel Piano Nazionale Scuola Digitale, viene vista come centrale per accelerare lo sviluppo della cultura digitale nelle famiglie e quindi essere una delle leve per innestare un cambio di marcia nell’intera società italiana. Già nel breve periodo, grazie a questa capacità di “contagio”.
La centralità strategica della scuola va quindi al di là della formazione delle nuove generazioni e alla spinta a che siano nelle condizioni di superare le condizioni di arretratezza attuali.
Questo significa che attribuiamo alla scuola parte delle possibilità di recuperare la situazione di arretratezza e di lento declino che sono testimoniate dall’aumento della disoccupazione, dall’allargarsi della differenza di crescita rispetto ai paesi più industrializzati, con un PIL ancora negativo, dalle classifiche internazionali che ci vedono indietro su buona parte degli indicatori sull’area dell’innovazione (vedi ad esempio la performance dell’Italia rispetto agli indicatori dell’Agenda Digitale europea).
Se questa è la scelta, allora i ritardi che ancora ci sono nell’attuazione del Piano contribuiscono a rendere inefficaci le politiche di innovazione italiane, per quel poco che ne è stato definito negli ultimi anni. L’effetto sul futuro del Paese è deflagrante.
Perché “cambiamento” è una parola chiave? Perché nella definizione del Piano Nazionale Scuola Digitale (o, almeno, di quel poco che di strutturato se ne trova sul sito del Miur) l’accento va sulle singole azioni (piano LIM, progetti Classi 2.0, Scuola 2.0, Editoria digitale) e non sul contesto generale di azione, lasciando l’impressione che un progetto organico di cambiamento, con individuazione di leve e di azioni concorrenti e di target e misurazioni di risultati, non ci sia.
Si ha l’impressione che il quadro generale, forse inizialmente presente, si sia frammentato in interventi e progetti che, presi singolarmente, non possono che essere inefficaci. Tra l’altro, con presenze un po’ desolanti di iniziative di comunicazione e condivisione arenate e abbandonate qui e là ).
Stimoli dall’ultimo rapporto OCSE sulla scuola digitale italiana
L’importanza di un quadro organico di intervento, necessario per l’impostazione di un efficace progetto di cambiamento, è così evidente che nella presentazione di marzo della review OCSE sullo stato del digitale nella scuola italiana (vedi comunicato Miur del 6 marzo 2013) l’ultima slide è proprio dedicata a delineare un “ecosistema favorevole per l’innovazione nel campo della formazione”, con la considerazione delle componenti organizzative e di sviluppo sia a livello della singola scuola che di sistema generale. Con una sottolineatura che denota l’insistenza su un punto che forse si ritiene troppo trascurato.
Credo che la lettura approfondita del rapporto OCSE, ora disponibile in formato integrale, sia importante perché consente di andare oltre le analisi, spesso superficiali, che si sono diffuse dopo la presentazione ufficiale sintetica, focalizzate più sui dati dell’arretratezza delle dotazioni tecnologiche degli studenti italiani (molto distante dalla media europea) che sui fattori chiave che il rapporto consigliava di prendere in alta considerazione.
Suggerimenti che credo sia utile sintetizzare e rileggere, perché mi sembra delineino il quadro di cambiamento organico che oggi manca:
a) operare con più leve per far fronte ai vincoli di budget, puntando al maggior coinvolgimento sistematico del finanziamento e dell’investimento dei privati, anche con l’utilizzo del concetto dei “matching funds”, ad una maggiore flessibilità nell’identificazione della tecnologia utile per la didattica;
b) supportare l’espansione, la distribuzione e il riutilizzo delle esperienze e delle risorse disponibili, non solo italiane, attraverso banche di progetti utilizzabili facilmente dagli insegnanti;
c) investire nello sviluppo professionale degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, partendo dalla constatazione che i programmi di formazione non hanno prodotto il risultato auspicato di mettere le scuole in condizioni di utilizzare l’Ict nella didattica quotidiana e quindi prevedendo strategie e modalità che vadano su azioni da un lato più coordinate (con un ruolo maggiore dell’INDIRE) e dall’altro su azioni rivolte alle scuole più che ai singoli insegnanti e più indirizzate alla didattica che alle tecnologie.
Puntando da un lato sull’incentivazione e i premi agli insegnanti “champion”, ma dall’altra parte anche sul diritto-dovere di formazione per tutti gli insegnanti;
d) Monitorare e valutare il cambiamento, sulla base di indicatori di risultato e di prestazione. Ancora dal report: “una limitazione del piano è che i suoi obiettivi sono definiti in modo vago e che non è pubblico nessun obiettivo operativo che possa fornire una misura di successo”. Insomma, una forte critica di metodo che ancora non è stata affrontata.
Il report entrava poi in merito di alcune azioni per “catalizzare” il cambio sistemico e l’innovazione didattica:
realizzare una rete di innovazione laboratoriale, con scuole che diventano “campi di test” per le sperimentazioni e le innovazioni da riportare a livello generale e con un sistema di governo della rete che permette anche lo sviluppo di una vera e propria comunità di ricerca e innovazione, e la valorizzazione del peer-learning/education nella comunità degli insegnanti;
creare le condizioni per l’apprendimento di sistema, con una focalizzazione specifica alla messa a sistema del knowledge management, che il rapporto puntualizza come totalmente assente dal piano.
Infine, alcuni interventi erano consigliati per diversi elementi di contesto, dalla considerazione delle competenze digitali in tutti i sistemi di valutazione (inclusa quella INVALSI), al miglioramento organico delle infrastrutture (e non a macchia di leopardo, come adesso), al coinvolgimento delle famiglie sul processo di cambiamento, a partire dai temi della sicurezza, mettere a sistema lo stimolo all’innovazione e la condivisione della conoscenza “Make knowledge sharing an engaging experience for teachers”.
Il cambiamento e la questione organizzativa
Il cambiamento viene pertanto prospettato tenendo conto delle diverse dimensioni in cui si articola un intervento di questo tipo: organizzativa, legata allo sviluppo delle competenze, allo sviluppo di carriera e ai riconoscimenti, al knowledge management, alla comunicazione e al lavoro collaborativo.
Il fatto che ancora si parli di buone pratiche isolate, di gruppi di insegnanti molto competenti ma che non hanno portato al cambiamento delle scuole in cui operano, significa che ci troviamo dinanzi ad un cambiamento mal programmato, con poche possibilità di successo, e che rischia anche di non valorizzare al meglio le scarse risorse disponibili.
Solo incidendo su tutte le dimensioni allo stesso tempo è, infatti, possibile produrre il cambiamento auspicato. In particolare, dal punto di vista organizzativo, agendo su:
la governance centrale, alla quale si richiede una visione educativa d’insieme, stabilendo dei modelli di valutazione delle performance e di sviluppo delle risorse umane, fornendo servizi che consentano l’ottimizzazione delle energie e delle risorse sui processi ripetitivi e meno “di valore aggiunto”;
le strutture di supporto al cambiamento, in grado di pianificare e governare il complesso processo di cambiamento che si vuole realizzare, strutture che sono da sviluppare e potenziare (a partire dall’INDIRE);
le organizzazioni scolastiche di coordinamento, che dovrebbero supportare lo sviluppo delle reti, dei servizi e la valorizzazione delle esperienze, oltre che garantire il monitoraggio degli indicatori del piano (una volta definiti);
le organizzazioni scolastiche territoriali, le cui azioni sono lasciate all’iniziativa volontaria e non coordinata, indirizzate ad accorpamenti che penalizzano la qualità del servizio scolastico in nome di una presunta efficienza, in netta controtendenza con quanto avviene nei Paesi di maggiore eccellenza scolastica, come la Finlandia, con progetti innovativi (come lo storico progetto SenzaZaino) che, pur dando risultati importanti, rimangono relegati su isole di attuazione;
il sistema di gestione delle competenze degli insegnanti e delle conoscenze e delle esperienze, di fatto inesistente se non in qualche raro ed isolato caso, comunque non “messo a sistema”, e anzi ostacolato dalla riduzione del tempo di “ridondanza”, quello cioè da poter dedicare al miglioramento e alla condivisione delle buone pratiche. In assenza, tra l’altro, di un sistema di incentivi e di merito del personale scolastico e delle scuole.
Come si può pretendere di introdurre “innovazioni” (e quindi cambiamenti) senza allo stesso tempo prevedere dei piani di cambiamento che intervengano in modo specifico su questi punti chiave?
Innovare significa cambiare, nel profondo, i comportamenti e le dinamiche umane. Non è frutto di improvvisazione né di fenomeni spontanei e automatici. Non si produce digitalizzando senza riorganizzare processi e senza cambiare le strutture in modo coerente.
Non si può procedere, come purtroppo si è fatto negli anni passati, con una evidente carenza di programmazione degli interventi, disattenzione alla gestione del cambiamento e sottovalutazione delle condizioni necessarie e dei supporti utili per l’effettiva realizzazione dei cambiamenti. Niente di più naturale che qualsiasi innovazione si riveli inefficace, o non vada oltre le soglie della sperimentazione.
Ci vuole un modo diverso di concepire questa trasformazione necessaria e strategica per la società italiana, con identificazione chiara degli obiettivi e definizione di un piano organico di cambiamento. Realizzato avvalendosi anche delle competenze e delle esperienze di coloro che sono chiamati a realizzarlo.
Il rapporto OCSE delinea una valutazione e indirizza dei suggerimenti che è utile siano da base per una revisione, un arricchimento ed un miglioramento del piano (molto carente) attuale. Abbiamo visto che il ministro Carrozza ha iniziato a raccoglierne alcuni (come nell’adozione del modello dei “challenge prize”) e altri punti sono presenti nel Decreto Istruzione approvato il 9 settembre.
L’auspicio è che il passo successivo sia la definizione di un rinnovato e completo piano organico di cambiamento, un nuovo “piano per la scuola digitale”. In cui anche il tema dei libri digitali trovi la sua adeguata collocazione.